Tuesday 29 December 2015

Addii, arance e olio di Sicilia.


Lasciamo il Salento il 2 novembre. A metà raccolta delle olive. Una raccolta meccanica e rumorosa, con gli abbacchiatori che scoppiettano e le reti da spostare in fretta sotto la pioggia di frutti carnosi. Salutiamo le piane verdi e le ulivete argentate. Salutiamo gli orti e le raccolte, le casse piene di verdura, ed il vino. L'ultima sera diciamo addio a questa terra piatta e fertile con una bottiglia di Cappello di Prete, del 2007. Grazie, Marco. Il vino, lu mieru, come si dice qui, è un ottimo rimedio contro la nostalgia.

Quanti bicchieri te mieru me biu,
tanti pinzieri te capu me lleu..

 

L'ultima notte è a Lecce da Noemi, e trascorre allegra, il vino scorre e la canapa brucia.

Lu megghiu dutturi è lu cantinieri,
Te llea de capu tutti li pinzieri..

Ridiamo, ci abbracciamo, ricordiamo i mesi passati insieme, quando ci rivedremo?

Ci quannu mueru ieu au 'mparaisu,
ci nun c'è lu mieru bonu ieu nun ci trasu..

 

Ci chiediamo quando torneremo in questa terra tanto bella e tanto violentata. Difficile a dirsi. Il Salento è il tempo che non torna, anche se sembra non sia mai cambiato, con i servi e li padruni ed i campi di cicorie.
Lasciamo il Salento. Raggiungiamo Taranto ed osserviamo increduli la maestosa, velenosa decadenza dell'Ilva. Capannoni immensi e ciminiere torreggianti, puntate contro il cielo come canne di fucile. Ed ovunque si guardi, un sottile strato di finissima polvere rossa, di limatura di ferro, che si posa delicatamente su tutte le superfici, come una spolverata di zucchero a velo sopra una torta. Scappiamo verso la Lucania costiera, tra le calanche, gli stabilimenti deserti e le agrumete che prendono il posto agli ulivi, fino in Calabria, dove le coste e i piedi dei monti sono accesi di piccoli soli arancioni e gialli, limoni, arance, mandarini. Saliamo fino a che le querce si sostituiscono agli agrumi. Lamirtìa è una cascina su un cocuzzolo dei monti silani. Sette ettari di bosco e pascolo. L'orto rigoglioso, a bancali seminati fitti, con un sistema di subirrigazione rudimentale ma efficace. Ranuccio e Gilda ci accolgono qualche giorno nel loro mondo. Il mondo fuori dal mondo. L'elettricità è a 12 volt, alimentata a batteria. La lavatrice è a pedale. L'acqua è piovana. Le api sono allevate in permacoltura, famiglie selezionate che non ricevono trattamenti e non sono sovrasfruttate. Le capre garantiscono lo staio per le coltivazioni. La vista spazia sulle ripide colline dall'altro lato dell'angusta valle boscosa, che sembrano lì, a pochi passi in linea d'aria, ma difficilissime da raggiungere, scendendo e risalendo gli erti costoni dei monti. La pace è rotta solo per brevi tratti dal latrato dei cani e dal rombo sordo dell'autostrada, quattrocento metri sotto. Ci rigeneriamo in quella pace per tre giorni, poi dall'erta montagna fitta di querce ed alveari, scendiamo a rotta di collo fino al mare, a comprare arance e passeggiare sui ciottoli, mentre un sole irreale riflette baluginando sul mare, e ci acceca. Caldo pranzo sulla riva. Poi si prosegue. Armonia. Lì si produce miele con il metodo tradizionale. Lì impariamo che lo staio è la base dell'agricoltura biologica. Impariamo sul campo, spalando merda di vacca sui campi di fragole e merda di gallina sulle aiole. La merda dei maiali la ammucchiamo soltanto.


E la Sicilia è lì. Ci addormentiamo guardando le luci di Messina dalla sponda opposta. Sembra di poterla raggiungere con un salto. Se ne va l'ultima erba salentina, guardando i traghetti illuminati fare avanti e indietro. La mattina ci si imbarca e poi si guida fino a Palermo. Giriamo intorno alla città, e vediamo solo munnezza, cani ed autodemolizioni. Poi si comincia a salire. Verso Sciacca, verso l'altra sponda. Erte valli, monti brulli e paesi in bilico sulle frane.
La Sicilia è solitudine. Monti in mezzo al mare. La Sicilia è il sole sulle pagliare, ed i clivi sassosi, spogliati dai pascoli. La Sicilia è monnezza per le strade, ed i cani smagriti che ci razzolano dentro. La Sicilia è d'arancia, piccolo sole d'inverno, e  di arancina, calda e confortante. La Sicilia è un borgo fantasma, che racconta storie di briganti. La Sicilia è dolce, è salata, amara ed aspra. Accogliente ma spinosa, affabile ma sospettosa. È mare e montagna, alluvione ed arsura, carestia ed abbondanza. Sicilia è speranza, è partenza, è mattanza. Ogni borgo ha le sue croci, sotto le croci la giustizia sociale. La Sicilia è un bosco in fiamme, una vacca abbandonata nel fango. È un ulivo cresciuto tra i sassi, un muro a secco coperto di sterpi, una frana che avanza a piccoli passi.
Ci arrampichiamo di nuovo sui monti, poi scendiamo in una stretta valle, dove sopravvive una macchia di bosco. La casa di Danilo e Simona è su di un clivo, tra le terrazze che scendono fino a due ruscelli, che si uniscono a V ai piedi di un poggio. La casa è ristrutturata in bioedilizia. Intonaci in terra cruda, isolamento con sughero e paglia, pannelli solari e raccolta acqua piovana. Due asini brucano le infestanti ed arricchiscono la scarsa terra, piena di sassi, con cacca fresca che diventa in breve, suolo fertile. Tutto fa parte di un progetto permacolturale. I bimbi, Anthea ed Ethan, giocano con Maelia, noi raccogliamo di nuovo olive. Un raccolto straordinario, che rende il 22 percento. In due settimane di raccolta a mano la casa è più ricca di quasi quattrocento litri di olio freschissimo, verde brillante e profumato di bosco. La Sicilia è dubbio, attesa, speranza. Scelta, bivio. Separazione e ritorno. Attendiamo la primavera più che mai.
 

Thursday 10 September 2015

Picca pane e picca pater nostri


 Da Pasqua stiamo vivendo a Piccapane, wwoofer a lungo termine e non di toccata e fuga. Non scriviamo più da quel giorno. Come mai non lo sappiamo, forse la testa era troppo occupata a preoccuparsi d'altro. Cerchiamo finalmente di liberarla. Oggi, otto settembre, dopo mesi e mesi di arsura fuori piove. Ci concediamo il tempo di un tè caldo, del tavolo di legno in sala e del pc, di rimettere insieme ed in ordine gli appunti mai pubblicati sul blog. Ed eccoli qui: il primo paragrafo è di maggio, l'ultimo di oggi, gli altri stanno in mezzo a questi mesi.

 
Piccapane. Da due mesi siamo qui. La strada passa vicina, vicinissima. A Reggioli eravamo estremamente isolati, boschi colline alberi e verde tutt'intorno ovunque guardassimo. Ad Amaltea si era già più vicino alla civiltà, il paese era in fondo alla collina, si vedevano le luci della città, tra i poggi boscosi, in lontananza, come un esercito schierato a battaglia. Qui siamo accanto all'incrocio di due strade, una è la provinciale e l'altra meno frequentata. Sentire macchine e camion passare è ridiventato un abitudine.
Piccapane è un mondo, è apertura totale verso l'altro, è accoglienza di gente che viene, resta, prende e da, e poi va via. Ho visto passare tante meteore qui, ci dice Giuseppe. Si riferisce ai wwoofer e ai lavoratori che vanno e vengono. Giuseppe ha quarantatrè anni, i capelli neri che sembrano quelli di un giapponese punk, un'eleganza innata anche quando indossa la salopette da lavoro, milioni di cose da fare che lo portano a correre e lavorare tutti i santi giorni. Piccapane è la sua casa, è un modello, è una scelta. Beppe lascia le porte sempre aperte, in due mesi non l'abbiamo mai visto chiudere a chiave nulla. É un gesto che mostra come quest'uomo vede il mondo intorno a sé.


Richard, uno scrittore inglese di settantacinque anni, è stato in vacanza qui per un mese. Ora ci sono quattro wwoofer oltre a noi: una coppia di inglesi giovani e intraprendenti, Tom e Lucy, una ragazza inglese che ha insegnato italiano in Salento per un paio di mesi, Lizzy, e una ragazza italiana mezza sarda, mezza napoletana, mezza bolognese, Noemi. E poi ci sono gli amici di Beppe che vanno e vengono, che passano a salutare e a prendere un caffè, a suonare la chitarra fumando insieme una sigaretta, a portare le uova delle loro galline, a far conoscere il nuovo bebé nato. Un mescolio di gente, di progetti, di gente persa e che cerca di ritrovarsi, di cammini che sembra non c'entrino nulla uno con l'altro e invece si incrociano con un perchè.
Prima di avere delle galline sue Beppe vuole aspettare di trovare una moglie, ci dice che qui si usa così. Di animali a Piccapane ci sono solo cani e gatti. Due gatte hanno fatto i gattini nelle ultime due settimane, li abbiamo visti nascere di fronte alla cucina, era per noi la prima volta, un'emozione.


Salento è la risata delle ragazze, alla fine della festa, a lume delle ultime candele. Salento è un forno acceso, poi spazzato e con le frise a biscottarsi dentro. Salento è terra riarsa, rinvigorita da acque sotterranee, primitive. É il Passato che muove il Salento. I vecchi contadini sono quasi scomparsi, ma gli altri si ricordano. La memoria si è preservata, ma come in una lingua antica, come un ritornello griko, arcaico, perduto. Il ritornello di un antico canto dal fondo di un pozzo dove l'acqua si è raccolta, un pozzo scavato quando la memoria degli uomini vivi si perde. Salento è senza punti di riferimento, al centro della rosa dei venti. Dove soffia lì si va. Salento sono i pomodori sui cannizzi, con il sale e le mosche che non larvano, ma succhiano l'acqua e accelerano l'essiccatura. Salento è agnello alla brace, fumante aromi, che sale in alto mentre il vino scende. Salento e la terra bruciata, rossa di sangue contadino sputato da secoli a zappare sassi. Salento è geometria degli orti, perfetti, i frutti generosi. Salento è varietà, è scoperta. Salento è veleno, che si infiltra tra le crepe e inonda la terra, i rivi, i campi. Allora l'acqua buona la si deve scavare fuori da novanta metri di argille, e quando finisce non si sa. Salento è tamburelli e lucertole, muri e case di sassi, flaconi di roundup appesi agli alberi, zona avvelenata scritto su cartelli sdruciti, a matita, ed attaccato col nastro ai ceppi. Salento sono ulivi. Ulivi ed ulivi. Alberi torti sui loro tronchi, annodati sulle pieghe di potature vecchie di secoli, scavati, curati, allevati. Salento è sole e mare, ma non qui, ai paduli, in mezzo all'argilla ed alle zanzare. Salento sono le piante di capperi che invadono la strada, i fichi potati bassi, chinati sotto il peso dei frutti, gonfi, dolcissimi. Salento è terra de cozzi, trasformata in giardino.


L'ultimo giorno di maggio, caldo torrido, indosso pantaloncini corti di jeans. Siamo alla villa (il parco giochi del giardinetto del paese) tutti e tre e con noi c'è anche Lucio Meleleo, un caro amico, ex sindaco di Cutrofiano, dal '93 al '97. “Non è estate, è maggio, i pantaloncini troppo corti non sono ancora ammessi in paese. E poi vengono accettati solo per le turiste”, mi dice. “Ma io vengo da Torino, quindi sono una turista” replico io. “E no, tu ora mandi la bambina a scuola qui e lavori qui, ormai sei di Cutrofiano”. Il paese ti guarda anche quando sembra vuoto, credi non ci sia nessuno, ma senti che da dietro le finestre qualcuno guarda e osserva. Sempre.


L'iperico è una pianta spontanea che cresce vicino ai muretti ed ai bordi delle strade. Schiude un fiore giallo a cinque punte, grumoso, unto di polline. I contadini lo raccoglievano a San Giovanni. L'erba di San Giovanni è stata attribuita ad un santo perché è davvero una benedizione di Dio. Ingerito sotto forma di tisana è disintossicante, febbrifugo, antinfiammatorio. L'oleolito è invece miracolo su qualsiasi tipo di scottature. Bruciati dal fuoco, dall'acqua bollente, dal sole, appena si applica sull'ustione dono immediato sollievo, se la si unge regolarmente sparisce in metà del tempo. Applicazione prolungate fanno guarire cicatrici e fistole. Non esiste in farmacologia nulla di egualmente efficace. Anche l'olio di iperico della farmacia è blando rispetto a quello che ci si può fare da soli. É Giò a farmi scoprire l'iperico. Ne confeziona diversi vasetti ogni anno e li vende cari. Perchè raccogliere l'iperico è un lavoro di precisione. Ogni stelo ha un fiore aperto e due boccioli subito sotto. Se si strappa il fiore con troppa violenza i due boccioli rimangono attaccati sotto, così si raccoglie un fiore oggi e se ne perdono due domani. Bisogna chiudere i petali con due dita e recidere lo stelo con l'unghia subito sotto il fiore. Se si strappa la pianta alla radice e si mette in acqua continuerà a fiorire per giorni. Giò ci aveva indicato un bel cespuglietto nella campagna di Galatina. “Se la curate questa diventa la vostra pianta”. Ci mettiamo in tre a spulciare piccoli petali gialli, uno per uno. In quella raccolta avevo prodotto il mio primo vasetto. Quaranta giorni al sole, da scuotere ogni giorno. Il problema è che dopo l'inverno particolarmente umido, l'erba ai bordi delle strade diventa alta. E così i contadini passano con il falciaerba e puliscono, senza stare tanto a guardare cosa puliscono. Ieri mattina appena imboccata la stradina che mena ai campi di Beppe a Galatina, ho sentito un tonfo al cuore vedendo le ripe rasate di fresco. Il “nostro cespuglio” di iperico spazzato via come in un turbine.


Stamattina al campo grande di Galatina abbiamo raccolto colori. Meloni, angurie, pomodori, carote, sedano, cipolle, fagiolini, peperoncini, melanzane. Meravigliosi colori e profumi, e le mani godono a toccare tante diverse superfici. Il caldo rischia di non fare apprezzare più nulla, e il caldo è tanto, arriva presto. Cerchiamo di arrivare prima di lui, alle cinque e mezza siamo lì, insieme alla terra, con il sole che è ancora placido, un po' d'aria che soffia, noi ancora un poco assonnati. Un pomodoro dopo l'altro la cassetta gialla si riempie di rosso. Le piante stanno cominciando a seccare, da settimane non piove. Giò mi dice che se resistono ancora una decina di giorni si riprenderanno poi con le piogge dei temporali di agosto. Le piante di peperoncino sono in tre filari, le foglie verde brillante, i frutti verdi, arancioni e già rossi quelli più maturi. Ho timore a raccoglierne così tanti, forse il piccante passa anche attraverso il frutto chiuso? Giò mi rassicura, è innocuo finchè non lo si apre. La pianta sembra forte, quasi di plastica e invece mi accorgo presto che è molto fragile, rischia di spezzarsi ad ogni movimento. Una pianta di cristallo che produce frutti così potenti. Tantissime sono le piantine qui a Galatina che avevamo piantato noi stessi in primavera, in questa ricca terra rossa, con le felpe ancora addosso nella prima mattina. Le abbiamo viste crescere, abbiamo dato acqua e diserbato, e vederle ora tronfie di frutti è commovente. La terra ti tiene a sé legato, restituisce amplificato l'amore che hai messo nel lavorarla. La raccolta è un lavoro facile, ripetitivo, e dà soddisfazione. É questa la mia meditazione, non quella a gambe incrociate che per ora non fa per me. Nei primi minuti il cervello pensa al gesto che sta compiendo, poi si abitua e lo fa in modo meccanico e allora inizia ad attorcigliarsi intorno a pensieri. Poi cede al niente, ed è magia, volano le ore, si lavora felici nonostante il caldo torrido, la stanchezza di un'altra notte troppo corta, la voglia di ombra di un ulivo e di riposo. Mia madre ieri mi ha telefonato per sapere come stavo, aveva letto la notizia di un ragazzo morto di caldo e fatica mentre raccoglieva pomodori, voleva rassicurazioni sulle mie condizioni. Non sono le stesse, lui era un ragazzo sfruttato, noi siamo wwoofers. Le ore di lavoro sono intense, ma poi il tempo libero è tanto. Libero per riposarsi, per leggere e scrivere, per gironzolare, per un tuffo al mare, per giocare tantissimo con Maelia, per conoscere questo strano Salento.


Con un limone in mano sto per sedermi sui gradini davanti alla pineta, stanca e serena penso al pomeriggio libero che abbiamo davanti, andremo al mare? No, forse oggi c'è troppo vento.
Poi le orecchie registrano un rumore nuovo, i sensi tutti si allertano, il naso è in allarme, gli occhi cercano cosa c'è che non va. É lì, davanti a me, a quattrocento metri da casa. Fuoco. Non ho mai visto un incendio prima, nel mondo reale. In tv e nelle fotografie non conta. Torno in salone, cerco Beppe, lo avverto. Telefoniamo subito ai vigili del fuoco (o piompieri come li chiama Tati), arriviamo appena possiamo, è la risposta.
Chi ha appiccato il fuoco ha atteso il giorno migliore, oggi soffiava la tramontana, e il vento fa muovere e fa diffondere le fiamme in un attimo. Rabbia, paura, impotenza. Chi ha più sangue freddo reagisce. Beppe, Andrea e Luca in un attimo sono al canneto, Andrea e Luca con giacche e coperte per spegnere le fiamme più basse e contenere il fuoco e Beppe con il trattore per soffocare il divagarsi dell'incendio creando una linea tagliafuoco, taglia canne e erba per non permettere al fuoco di avanzare verso casa. Il fumo è spesso, entra nella bocca anche se la si tiene chiusa, il rumore degli alberi e delle canne che si bruciano e che si piegano morendo nel calore delle fiamme è spaventoso. Andrea e Luca battono e battono le fiamme più basse, riescono a limitare il fuoco. Beppe taglia e fresa. Le fiamme sono a tratti altissime, il fuoco rosso arancio, più vivo che mai. Gli uccelli in volo danzano un ballo impazzito. Noi altri rimaniamo a guardare, grati al coraggio di chi riesce a fare. Poi arrivano i piompieri, due ragazzi e una ragazza, giovanissimi, senza dir nulla iniziano a salvare. Con le manichette combattono le fiamme dal centro e dai bordi, riescono in breve tempo a far placare la bestia. Restiamo immobili, increduli, tristi.
Dietro di noi, a duecento metri, davanti a una piccola casa bianca di campagna, vuota e che ha l'aria abbandonata, due persone, un uomo e una donna, ci guardano immobili. Portano in noi diffidenza istintiva, fumano lunghe e grosse sigarette osservando la scena. Stavano lì a guardare da prima, non avevano chiamato i vigili, il vento non tirava dalla loro parte, non correvano pericolo, dunque perchè preoccuparsi?
“Lasciamo finire ai vigili del fuoco, torniamo a casa ragazzi”. Il meritato pisolino pomeridiano è stato ritardato di un paio d'ore. Beppe ha lo sguardo lontano, c'è rabbia e tristezza. “Le ore sono sempre le stesse, mattino presto o a cavallo del pranzo”, ci spiega, “scelgono per appiccare i momenti di maggiore distrazione e rilassatezza”. Succede una volta ogni anno o ogni due che qui venga appiccato il fuoco. La scorsa settimana cinquanta antichi alberi di ulivo, centenari e carichi di frutti che avremmo raccolto tra un mese, sono stati bruciati. Come si fa ad accettare, ad abituarsi, a lavorare e faticare serenamente? Non sappiamo il perchè di tutto questo, non lo capiamo, e non c'è per ora spazio per discuterne.


L'estate oggi sembra finita. Tiriamo fuori le felpe dall'armadio.
A luglio qui ci siamo sposati, un matrimonio fatto di vestiti teatrali, bicicargo rosa, bouquet home made, di intendo no deve dire si lo voglio, di picnic in pineta, di giornata a Portoselvaggio, di cena vegana, di canti di chitarra salentini e di poesie nude. Poi luglio è volato nel caldo e nel lavoro e agosto ci ha stupito da inizio a fine. Una lunga luna di miele, Prima il Molise e Jelsi, la famiglia, tutta tanta e unita, legami di sangue e di amore. Poi il Giardino della Gioia, perla vicino a Torre Mileto, lì gli ulivi secolari e la volontà di una vita rispettosa e grata, là la plastica e l'immondizia senza vergogna. Avremmo dovuto rimanere pochi giorni, ma la bellezza era tanta, non riuscivamo più ad andar via. E infine Peschici, dopo quattro anni di assenza. Valentina e Furio e i loro bianchi sorrisi, risate vino e serenità. Riscoprirsi e ritrovarsi senza che il tempo abbia mutato nulla.


Piccapane e Beppe ci accolgono di nuovo in questo fresco settembre, resteremo con loro ancora un altro po', la raccolta delle olive quest'anno la faremo più in grande, con in mezzo alle braccia e alle mani e alle reti anche le macchine che scuotono gli alberi.
Poi ci auguriamo libertà di ripartire, visualizzando sempre il positivo, apprezzando ogni incontro e restando affamati di scoperta.



Monday 6 April 2015

Zebre, Etruria e ginecei

L'ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza. Poichè ci fidiamo dei detti colmi di saggezza popolare siamo rimasti a Zebrafarm, Umbria, solo tre giorni. E che giorni! Pienezza e gioia.
Arriviamo in tarda mattinata, ci viene incontro abbaiando Tatagata, una dolce cagnona nera. Saviana e suo marito stanno lavorando alle finiture dell'atilier, cioè l'altelier di Ati, suo marito appunto. Lui è abbarbicato su una scala, sorridente e abbronzato, un bell'uomo pieno di pace. Quando scopriamo la sua età rimaniamo a bocca aperta, ne dimostra venti di meno. Saviana è serena, la dama dei boschi, capelli lunghi e grigio bianco, ci fa venire in mente Jane Goodall. La piccola casa o grande stanza che stanno terminando è fatta di balle di paglia e rivestita di terra cruda, i muri sono lievemente ondulati, in modo irregolare, sembra una grotta delle fiabe.
Saviana e Ati: lei si definisce italica, di tutte le origini, popolare-nomade-nobile, tutto fuorchè medio borghese. Lui è Argentino, ex bancario, attuale pittore, artigiano, orefice, contadino, viaggiatore. Da ormai molti anni condividono il loro cammino, un po' qui in Etruria, e un po' in giro per il mondo. Dopo poco arriva Revel, di ritorno da scuola, tredici anni: il suo viso è libero, il suo sorriso è semplice, i suoi occhi neri guardano al di là delle cose e a volte si perdono nell'infinito. Bellezza.
Feeling in inglese, sintonia in italiano, ecco quel che percepiamo dopo poche ore a Zebrafarm. Tre persone prive di fretta e di stress, tre persone complete, tre esseri umani, umani per davvero.
Maelia ci mette ancora meno di noi ad innamorarsi di loro, lascia cadere da subito ogni barriera, splende e sorride, gioca ed esplora, sembra aver scordato ogni paura e timore del nuovo, si dimentica di noi e si perde a giocare con Revel. Quale miglior cartina tornasole della nostra meravigliosa principessina?
 L'atilier in terra cruda e materiali di recupero.
“Camminate dietro di me! ...Lo sapete perchè si dice camminare in fila indiana?” ci chiede Saviana, e poi risponde lei al posto nostro: “Perchè gli indiani, che di cose ne sapevano tante, camminavano uno dietro l'altro, e non come facciamo noi, in branco sparso come una mandria di mucche. Qui a casa nostra camminiamo in fila indiana, perchè guardate intorno a voi, tutto questo è cibo, non va calpestato! Camminate solo nei sentierini perfavore.” Apriamo gli occhi, e finalmente vediamo, notiamo tutt'intorno ortiche, erba aglina, borragine, stellaria, falsa ortica...
Il primo pranzo a Zebrafarm è un piatto di pasta di farro con le ortiche, delizioso. Le ortiche le raccogliamo nel grande giardino di Saviana e Ati, noi con i guanti, lei no. “Se vai deciso e non ci pensi non pungono, e poi l'istamina delle ortiche è antiartritica”. Le crediamo sinceramente, ma le nostre dita no, probabilmente non siamo sufficientemente decisi. Il cestino di vimini si riempie di puntarelle di ortica, e le sue mani non hanno una sola bolla.
 La compost toilet.
Qual'è la professione di Saviana? Docente di permacultura, corsista, forse anche maestra di vita. Da trent'anni si occupa di permacultura, senza mai smettere di studiare e viaggiare. Tra pochi giorni partirà per un altro viaggio, destinazione Burkina Faso, perchè anche i burkinabè si interessano di permacultura. Va a fare un mese di corso, senza chiedere un compenso, ma solo una donazione. “Vogliamo riuscire a vivere solo di donazioni. Lavorare pensando al salario toglie bellezza al lavoro che si fa. Quando imbiancavo le case a vent'anni pensavo più al compenso che avrei ricevuto, che a quel che stavo facendo... Che senso ha?” D'estate a Zebrafarm Saviana e Ati tengono due corsi di permacultura e progettazione, gli iscritti sono da limitare, il prezzo è sempre adattabile a chi giunge e ai bisogni di ognuno ed è comunque estremamente democratico. Si chiama umanità.
Dopo pranzo Saviana tenta di migliorare una rocket stove, un'altra delle cose in cui è maestra. Si trova nella stanza Mandala, una splendida casetta in terra cruda, tondeggiante, grande come una yurta, luminosa e invitante alla meditazione. Quando vediamo la rocket, è la prima per noi, e capiamo il suo funzionamento la domanda che le poniamo è: “Ma perchè non ce n'è una in ogni casa dei paesi freddi?”. Questa domanda si sommerà a molte altre nel corso dei tre giorni, e la risposta che Saviana ci da è sempre la stessa: “Se voi mi dite perchè alcuni genitori picchiano i figli, perchè la gente ubbidisce alla pubblicità, ara i campi, mette i fertilizzanti chimici... allora io vi rispondo...” Insomma, non fa girare l'economia quindi nessuno spinge per diffonderla.
Le chiediamo alcuni dettagli sulla costruzione e sul funzionamento, “Poi vi do il pdf” ci dice senza l'ombra di strafottenza. É perennemente in corso, questi sono per lei giorni di pausa, non vuole essere docente.
Mattoni, terra cruda. Ecco i due componenti principali della rocket. Si brucia un quantitativo di legna infinitamente minore che nelle stufe tradizionali. Una parte della stufa è un grande e comodissimo (una volta coperto con un telo e dei cuscini) divano riscaldato, si può cucinare sia sulla piastra che nel forno... non riusciamo davvero ad immaginare qualcosa di più intelligente, economico, ecologico, furbo. Saviana fa corsi anche per imparare a costruire le rocket stove. Proprio il giorno dopo riceve una telefonata mentre siamo in campagna, è qualcuno che vorrebbe venisse a farne in una casa... “Signora io fino al prossimo febbraio non ho spazi, se volete venite a Orvieto, tra due mesi farò un corso a donazione lì, proprio per imparare a costruire le rocket, e poi ve la costruite da voi. Oppure se vuole le mando il pdf...” Saviana e le sue conoscenze sono consciute e richieste.
Revel. Una bambina magica, cresciuta in giro per il mondo. Prima di ascoltare i loro racconti di famiglia notiamo fin dalla prima sera il rapporto meraviglioso che Revel ha con sua madre e con Ati: è già una donna e ancora una bambina, autonoma, sicura di sé, dolce e umile. Non è piena di quelle frivolezze e di quegli atteggiamenti civettuoli e smorfiosi che si notano e si trovano così spesso nelle tredicenni di oggi. Da un anno va a scuola, l'ha chiesto lei, e sua madre ha ridotto i viaggi per andarle incontro. Gli anni precedenti ha fatto scuola a casa, preparatissima, ora è la prima della classe. É ricca di quella curiosità verso il sapere di chi non è mai stato obbligato a studiare, ma ha sempre avuto a disposizione tempo, libri, intelligenza, stimoli, creatività: tutto ciò che serve per far nascere e nutrire la cultura. Revel sceglie consapevolmente, non è una cosa così diffusa né tra i tredicenni né tra gli adulti. Sceglie di dire no grazie al nonno che le propone di regalarle il tablet, non ne ho bisogno. Ed è contenta di aver trovato una batteria in sostituzione di quella perduta nel suo vecchio cellulare, senza schermo-dita-foto-internet, ma che le permette di telefonare in caso di bisogno. Revel sceglie di non andare in gita a Milano con la classe, perchè è una città che già conosco e non mi piace. Scegliere, concentrarsi su quel che si sta facendo, star bene sia in compagnia sia da soli, saper riconoscere e sviluppare le proprie passioni, intessere dialoghi, giochi e relazioni umane con persone di ogni età. Sono rare ragazzine tali.
La seconda sera dopo aver colorato con Maelia, Revel e sua madre Saviana ci fanno una bella sorpresa: spettacolo di danze tibetane. Nei mesi trascorsi a Tenerife, Revel ha seguito ogni giorno dei corsi di danza tibetana, ha imparato, è diventata addirittura maestra. E così sul tappeto, davanti al divano, sotto ai nostri occhi stupiti e quelli divertiti e coinvolti di Maelia, per un'ora le abbiamo viste danzare, un sorriso leggero sul volto, le mani e le braccia che si muovevano delicate nell'aria, ogni pezzetto di corpo seguiva il ritmo della musica tibetana che usciva dal pc.
Ati si apre quando siamo da soli con lui, racconta e racconta delle sue tante vite, nel suo italiano quasi perfetto e ricco di accento argentino. Vent'anni di banca davanti ai computer nella grande Buenos Aires, un ottimo salario e una cravatta al collo. Poi quella cravatta è stata tagliata, la causa è stata insperatamente vinta, la vita ha preso un'altra piega, lui è andato a vivere in campagna vicino Cordoba. “Quando vivi in città e hai un buon lavoro non ti accorgi di tante cose. A me il mio lavoro piaceva, ma dopo tanti anni volevo cambiare. In città si spende tanto, a me sembrava necessario soddisfare tanti bisogni che ora non esistono nemmeno più per me. Ma quando sei in una grande città e guadagni, allora sei in un circolo, guadagni e spendi, e vai avanti così.” Ora Ati vive, fa il marito, il padre, dipinge e costruisce, taglia le acacie e semina l'orto, cucina, sorride, prende Revel sulle ginocchia e li senti parlare fitto in spagnolo, ridere.
Il mattino dopo siamo andati con Saviana alle terre che lei ama chiamare “la mia pensione”: poco meno di un ettaro di terreno, centotrenta ulivi, un poco di vigna, il lago di Bolsena sullo sfondo. Il terreno non lo ara, non lo zappa, non lo concima, da ormai dieci anni. Il risultato è uno strato di humus di almeno cinquanta centimetri, la terra è così soffice che il trapianto del corbezzolo ha richiesto solo poche e leggere zappettate. Gli ulivi non sono potati qui, Saviana taglia solo qualche ramo durante la raccolta delle olive. É sicuramente un gran risparmio di tempo non potare, e a quel che dice Saviana è un atto superfluo la potatura in vista di un maggior raccolto. Il suo di raccolto è ottimo e non è minore di coloro che potano e concimano le piante ogni anno. Durante la mattinata tagliamo decine e decine di ginestre nella zona di confine del suo campo con quello del vicino, è una piccola striscia tagliafuoco che deve rimanere il più possibile pulita. Le ginestre in caso di incendio sono le prime a prendere fuoco e quindi le tagliamo rase alla terra con il seghetto. Osserviamo Saviana seminare: getta sulla terra semi di lupino, di trifoglio, e di graminacee miste. Molti semi li mangeranno uccelli e insetti, altri attecchiranno e cresceranno. Il pranzo è fatto di pane, frutta, formaggi e un ottimo succo di albicocca, nella casa sull'albero costruita su un ulivo, guardiamo il lago. Serenità.
Nel pomeriggio si va tutti insieme alle terme I bagnacci. C'é anche la loro amica Alice e sua figlia Anita. Noi di film ne guardiamo ben pochi, ma poche settimane fa ad Amaltea avevamo visto “Le meraviglie”, la storia di una famiglia di apicoltori. E niente succede per caso... Alice è la regista di quel film. Donna speciale, aggettivo che in questa zona, ma anche in Toscana, usano per definire qualcosa di eccellente. “Il mio vino non è buono, è speciale” dice il viticoltore, e vuol dire il mio vino non è buono, ma è buonissimo! Dopo le terme si va a cena a casa di Alice, anche con lei funzioniamo da subito, si discorre, si ride, si beve un bicchiere di vino, si sta bene. E Maelia assorbe tutti, lei che senza parole dice più di noi tutti, lei che gioca e fa giocare, disegna le mani di Tashina come fossero due tele. Tashina, amica e coabitante di Alice, giovane botanica. Con Maelia è disponibile, amichevole, dolcissima. Tashina mentre parla sorride, mentre ti ascolta ti guarda dentro, non tiene nascosto nulla. A completare questo meraviglioso gineceo c'è Lima, cinque mesi, un vello bianco e morbido, gli occhi azzurri. Saltella dietro alle sue due mamme ovunque vadano, gioca con le bimbe, dorme davanti a casa accucciata come un cane da guardia. Lima l'hanno trovata agnellino di poche ore, mezza morta in un campo intorno a casa durante un temporale novembrino molto forte, il gregge fuggendo l'aveva lasciata lì. Tra biberon e amore si è salvata, ora è grande e forte, bruca senza sosta. Sperano di riuscire a reinserirla tra i suoi simili, anche se ormai l'imprinting ha fatto il suo lavoro, e non sarà facile convincerla di essere una pecora.
 Lima, la pecora-cane.
Andrea incontra Romano mentre lega le vigne nel campo, li vedo ritornare insieme verso la casa, entrambi sul piccolo trattore. Romano è contadino viticoltore, un sorriso amaro sul viso, una vita troppo piena di stanchezza e di lavoro. La sua cantina è semibuia, piena di botti, l'aria è pregna di legno e di vino. Ci fa assaggiare i frutti del suo lavoro, un vino buonissimo e lieve, che sa di vino e di null'altro, una vera bontà. La nostra piccola damigiana è ora piena del suo nettare.
L'ultimo giorno in Etruria lo trascorriamo a casa di Alice, Anita e Tashina. L'idea era rimanere solo per un caffè e per un saluto, ma abbiamo portato i cornetti e le paste, e i programmi sono cambiati un po'. Revel, Anita e Maelia hanno giocato per ore nel tappeto elastico, saltato e capriolato, letto storie, riso, guardato il cielo. Noi grandi si è chiaccherato tanto, di vita, di studi, di viaggi, di progetti. Alice è molto impegnata e altrettanto generosa, ci prepara un pranzo luculliano. Cucina tutto lei, anche il pane. Quando è pronto ce ne dà una forma, insieme a un vasetto del miele che fa suo padre. Maelia riceve da Anita un vestitino da trilly campanellino di un carnevale di un po' di anni fa, “A me non va più, usalo tu, è da principessa!”, le dice Anita.
Ci si lascia in un abbraccio con promesse di rivedersi presto.
Luoghi e persone meravigliose, la promessa di tornare la facciamo anche a noi stessi.

Wednesday 4 March 2015

Due marzo, malocchio e germogli


Oggi c'è stato vento forte, ci si doveva urlare le cose per sentirsi sulla collina, gli alberi intorno si mischiavano all'aria e il fruscio era forte. Il vento era freddo, le nuvole grandi e scure nel cielo immenso sui boschi. I giorni come oggi sono gli ultimi strascichi di inverno, e intanto il salice piangente davanti casa ha già ogni suo lungo rametto ricoperto di verdi foglioline pronte a crescere e ad aprirsi, e anche i susini, i ciliegi, ogni albero comincia a mostrare le gemme sui rami, le promesse di primavera.
Maelia è tornata a scuola dopo una settimana a casa, com'era felice, e anche noi. Mancavano la bicicletta, i cappelli e le sciarpe, le discese veloci e le faticose salite. Incantevole tornare a stare bene, sia per la nostra piccola bimba che ha affrontato solo una lieve influenza, e sia per noi che invece abbiamo vissuto qualcosa di un po' più grande, qualcosa che ci è sembrato anche troppo grande. Ma poi invece ce l'abbiamo fatta, la perdita di qualcuno che ancora nemmeno conoscevamo l'abbiamo superata, in mezzo a un po' di sane lacrime, a righe scritte. A un rito inventato: ora una piccola quercia è lì, discreto simbolo, ai piedi della food forest, con le nostre preghiere e i nostri pensieri piantati nella terra, con le ceneri del fuoco sparse intorno. É stato un “buon viaggio” leggero quello che siamo riusciti ad augurargli. La forza torna un po' di più ogni giorno, lo vediamo nella voglia di parlare e scherzare e ridere, nella camminata che si fa di nuovo veloce, nelle notti di nuovo serene.
Abbiamo temuto un po' di tutto vivendo una sfortuna in fila all'altra, ci siamo anche ritrovati una mattina a mischiare acqua olio e candele accese per scoprire se qualcuno ci avesse lanciato il malocchio. Insomma il periodo è stato ben duro, ma non insormontabile. Siamo ancora in piedi, più saldi e innamorati di prima, .
La famiglia di Tiziano, Erika e i loro due bimbi ha vissuto, anche se solo di rimbalzo i nostri dolori, i silenzi hanno invaso una bella relazione che stava nascendo. Ora con un cerchio, una bottiglia di vino, tanta sincerità e buona volontà si tenta di recuperare, ma un mese di guai è stato lungo anche per loro. Peccato, certo. Ma dovevamo metterlo in conto che andando in giro in wwoofing per tanto tempo sarebbero potute capitare non solo cose belle, ma anche altre più problematiche e dolorose. Ci siamo ritrovati a vivere un'emozione molto triste ed intima con delle persone che seppur disponibili e comprensive, conoscevamo appena. Momenti in cui forse non vorresti nemmeno gli amici più intimi intorno ti ritrovi a stretto contatto con delle persone che sono quasi degli sconosciuti. La convivenza è anche questo.
Ci siamo interrogati in questo periodo anche su che cos'è il rapporto host/wwoofer.
Quanto si può costruire a livello umano in un periodo così breve, per noi tre mesi circa, ma per tanti altri anche molto meno; cosa si aspettano gli host da coloro che accolgono in casa loro, tanto lavoro, un'amicizia, semplice compagnia; come comportarsi come wwoofer in caso di problematiche di salute o familiari, alzare le tende se se ne hanno le possibilità, rimanere e condividere il bene e il male. Siamo giunti a conclusioni ancora sconfusionate... ci vorrà tempo ed esperienza per avere un quadro più chiaro, fermo restando che ogni caso sarà sempre e comunque unico. Quel che abbiamo capito per ora è che essere wwoofer è essere a tutti gli effetti un lavoratore, che però vive a casa del capo. Che è sicuramente un capo migliore di molti altri, molto aperto se ha scelto di entrare nel circuito wwoofing, interessato alla conoscenza reciproca, ma resta lui il capo, e tu il lavoratore. Se ci si trova bene e si è in gran forma fisica, allora tutto va a meraviglia, ancora meglio se fa bel tempo o almeno non diluvia e si può lavorare finché c'è luce. Se invece è tutto il contrario... allora le cose si complicano... Poi vi è tutta la dinamica dell'accoglienza e della condivisione, che è assolutamente reale. Si è accolti in famiglia e nelle dinamiche ad essa intrinseche, si diventa parte delle giornate del nucleo famigliare in cui si vive. Ma si rimane una parte relativa, si è un qualcuno che non è un pari, che sta agli orari della famiglia host e rispetta le abitudini della casa, che mette i propri tempi e interessi in secondo piano di modo da non diventare un peso. Forse è questo che alla lunga può portare squilibri e far stridere i rapporti.
Forse tre mesi sono troppi e troppo pochi. Troppi perché non è un periodo sufficientemente breve da portare a vivere unicamente il lavoro e la spensieratezza di una relazione amicale nuova, ma anzi in una novantina di giorni vi è tempo di andare più a fondo nella vita delle persone e vederne il bello e il brutto. Ma sono pochi perché in tre mesi appena cominci a fare quel passo in più, quel gradino in salita, ma che ti porta a una relazione più profonda e reale, ed ecco che è già giunta l'ora di partire. D'altronde i professori di antropologia all'università hanno sempre detto a noi studenti che un terreno di ricerca abbisogna in primis di tempo, l'elemento più prezioso. Tre mesi sono considerati lo stretto indispensabile, il minimo al di sotto del quale una tesi di ricerca rischia di non farcela. Parlano per esperienza diretta di vita i saggi professori. Forse modificheremo i tempi di permanenza, si passerà a sei mesi da ogni host invece dei tre previsti. Vedremo. Per ora marzo è cominciato con i migliori auspici, tenteremo di fare ogni cosa che avremmo voluto fare in tre mesi qui da Amaltea in queste ultime quattro settimane. Ce la faremo? Filmati e foto, interviste, apprendere a potare gli ulivi, a fare le creme, a distinguere le piante, a costruire recinti... D'altronde la mia mamma lo dice: da ventotto anni che vorrei far entrare il mare in un bicchiere.

Saturday 7 February 2015

Grembiulini, calendule e capre.

L'anno vecchio non è finito nel migliore dei modi, con un Natale trascorso con persone rilevatesi molto diverse da quel che credevamo e che ci hanno creato non pochi problemi. L'anno nuovo invece è cominciato con una bella influenza doppia, sia per la mamma che per la bimba. Tosse a go-go e letto per un po' di giorni. Ma per fortuna ci siamo ammalate a casa di Erika, botanica, che prepara tisane buone, bio, ed anche utili. E così a forza di suffumigi di timo e tisane fluidificanti dopo una decina di giorni eravamo di nuovo in gran forma, nel sole di gennaio a raccogliere rosa canina che brilla rossa sul cielo terso.
Nonostante il tanto pensare e le decisioni educative prese la piccola Maelia sta andando alla scuola materna. Tre chilometri di colline in bici ogni mattina, l'aria fredda che sveglia ogni pensiero. Leo e Olmo vanno entrambi a scuola fino alle quattro del pomeriggio, invece di star sola con i grandi per ora è meglio per la nostra piccola andare a giocare con altri bimbi, ognuno con il suo grembulino colorato. I dubbi restano, ma poi con la vita si scende a patti ogni giorno.
Amaltea, la capra che con il suo latte ha nutrito Zeus. Amaltea è il nome dell'azienda agricola di Erika e Tiziano. La loro idea iniziale era avere delle capre, fare latte, formaggi e yogurt. Poi i costi troppo elevati hanno fatto deviare l'iniziale progetto. E quello delle capre rimane un sogno, un'idea da realizzare non appena ce ne sarà la possibilità.
Tiziano è buono, lavora come un mulo da mattina a sera, e spesso ben dopo che la luce del giorno se n'è andata. Lavora in un'altra azienda agricola dove riceve un salario. Lì in questo periodo sta potando olivi su olivi. Vorrebbe ben altro, vorrebbe dedicarsi tutti i giorni alla sua di azienda agricola, e ai suoi di olivi, ma bisogna riuscire a vivere, e quindi per adesso le cose vanno così. É pieno di pace, di soddisfazione per le scelte che ha fatto nella vita. É stato pastore per qualche estate nelle malghe in Trentino, una vita che gli piaceva, e poi le cose sono andate avanti. Ora lo si vede con i suoi occhi dello stesso blu del cielo di gennaio camminare di buon passo verso i suoi alberi e verso i suoi cavalli, con Zebrù che lo segue ovunque, i bimbi che nel fine settimana gli corrono intorno con le loro testoline bionde e gli stivaletti di gomma rossa e blu.
Spetalando i fiordalisi e la calendula con Erika si chiacchera tanto nella loro piccola casa. Una ragazza di Milano che da anni vive in Toscana, che dalla politica dei cortei e delle assemblee è passata a quella ben più concreta di una scelta di vita consapevole e in linea con i suoi principi. Ancora non è completamente soddisfatta, lei e Tiziano sperano di arrivare presto all'autonomia e all'autoproduzione. Andare a fare la spesa alla coop a volte toglie il senso.
La loro casa è piccola, ma bella come loro. Teli colorati rendono vivo ogni spazio, tisane e barattoli di erbe si intravedono su ogni mensola e in ogni mobile, i disegni dei bimbi su una parete, tanti tanti libri pieni di immagini e parole.
Tra pochi mesi inizieranno a costruire la casa nuova,, di paglia, sarà molto più grande ed esposta a lato sud, dentro alle terre che coltivano. Saranno nuovi equilibri, nuovi spazi.

Sunday 1 February 2015

Frasche, pastori e chiavi inglesi.

Il poggio con l'uliveta. La parte più spelacchiata sulla sinistra è la parte già potata. Il ciuffo dorato è il salice.




Oggi, finalmente, sono risalito su di un ulivo. Il poggio è assolato, la temperatura mite, l'erba verde che sembra primavera. Tiziano è pacato, paziente e pacioso. Con le cesoie elettriche in mano mi illustra la potatura degli ulivi.
Siamo arrivati all'azienda agricola Amaltea l'otto gennaio. Ci accolgono Tiziano ed Erika, con i due pargoli Leo ed Olmo, di sei e tre anni. Si sono trasferiti qui nella Valdera, a Rivalto in Chianni, dieci anni fa. Erika è botanica, Tiziano è un vero uomo di campagna.
Tac, tac. Le mie forbici danno qualche sporadica spuntata, più che altro osservo, cercando di non fare danni. Il sole di gennaio, incredibilmente caldo, ci arrossa le guance. Tiziano teme anche quest'anno l'assenza delle gelate invernali, indispensabili per sterilizzare la terra dai parassiti. Il gelo è l'unico insetticida che può usare nell'uliveto. Se le temperature non scendono, anche l'anno prossimo si rischia l'invasione della mosca olearia. Zzzt, zzzt, le cesoie elettriche ronzano veloci. Tiz dà un'occhiata rapida alle fronde, conta le branche, zzt, elimina i polloni.  Sceglie la cima, che guiderà la crescita in alto, seleziona i rami da tenere, zzzt!
Erika è un bel nome per una botanica. Con gli occhi verdi guizzanti descrive le piante officinali che coltiva, mentre ci accompagna a vedere i beni. La calendula è aggressiva e bellissima, con i fiori larghi ed arancioni, che brillano sull'argilla del poggio come tanti piccoli soli, anche d'inverno, generosi. Con lei riusciamo a dare un nome italiano alla chickweed, che Ian l'Americano, a Reggioli, ci fece raccogliere e gustare in insalata. Le infiorescenze a stella hanno trasformato l'erba per pulcini nella Stellaria
Un lieve vento tiepido da Ovest ci scalda le guance. Uno strano sole di gennaio, più brillante che mai, ci regala un poco di calore. Tranne gli ulivi, le piante sembrano confuse da questo clima così inaspettatamente mite. Sulle querce, che ancora trattengono le ultime foglie autunnali sono già spuntate le gemme. La mimosa comincia a sfumare in giallo, le sue cime a grappolo stanno fiorendo. Tac! Le mie forbici tagliano una fronda. Tiziano gira lo sguardo. Cos'hai tagliato, mi chiede. Gli mostro il ramo reciso. Non è un pollone? Chiedo io, ma l'errore è evidente. No, quella è la classica frasca da coltivare, risponde lui senza risentimento. Ci scherza su poco dopo, per sdrammatizzare l'evento. 
Raccogliamo tutte le frasche in un gran mucchio, poi accendiamo il fuoco, che divampa subito alimentato dalla resina delle foglie. Si alza un fumo bianco e spesso, che turbina spinto dalle folate, che nel frattempo hanno preso vigore. Un bel falò propiziatorio, che porti olive sane ed abbondanti. Zebrù, da buon pastore, ci gira intorno e quasi ci raduna, come le pecore, tenendoci in compagnia, scodinzolante. I cavalli ci osservano da lontano, un poco affamati, aspettando il fieno. Zebrù talvolta li punta, si avvicina ventre a terra, poi si accuccia, teso e vigile, e li bada.
Sabot è nelle mani di Fausto. Chiave inglese e tanto olio, gli ci vuole. E chissà cos'altro. Nel cortile di casa sua, con i gelsi che lo riparano dalla vista, Fausto ha la sua officina genuina clandestina. Prima riparazione e primo vero check-up del nostro trattorino. Qualcuno l'aveva detto che avremmo avuto problemi. Avete un bel coraggio ad avventurarvi con un mezzo così. Vedremo. Male che vada proseguiremo in bicicletta.


Chickweed..