Da Pasqua stiamo vivendo
a Piccapane, wwoofer a lungo termine e non di toccata e fuga. Non
scriviamo più da quel giorno. Come mai non lo sappiamo, forse la
testa era troppo occupata a preoccuparsi d'altro. Cerchiamo
finalmente di liberarla. Oggi, otto settembre, dopo mesi e mesi di
arsura fuori piove. Ci concediamo il tempo di un tè caldo, del
tavolo di legno in sala e del pc, di rimettere insieme ed in ordine
gli appunti mai pubblicati sul blog. Ed eccoli qui: il primo
paragrafo è di maggio, l'ultimo di oggi, gli altri stanno in mezzo a
questi mesi.
Piccapane. Da due mesi
siamo qui. La strada passa vicina, vicinissima. A Reggioli eravamo
estremamente isolati, boschi colline alberi e verde tutt'intorno
ovunque guardassimo. Ad Amaltea si era già più vicino alla civiltà,
il paese era in fondo alla collina, si vedevano le luci della città,
tra i poggi boscosi, in lontananza, come un esercito schierato a
battaglia. Qui siamo accanto all'incrocio di due strade, una è la
provinciale e l'altra meno frequentata. Sentire macchine e camion
passare è ridiventato un abitudine.
Piccapane è un mondo, è
apertura totale verso l'altro, è accoglienza di gente che viene,
resta, prende e da, e poi va via. Ho visto passare tante meteore qui,
ci dice Giuseppe. Si riferisce ai wwoofer e ai lavoratori che vanno e
vengono. Giuseppe ha quarantatrè anni, i capelli neri che sembrano
quelli di un giapponese punk, un'eleganza innata anche quando indossa
la salopette da lavoro, milioni di cose da fare che lo portano a
correre e lavorare tutti i santi giorni. Piccapane è la sua casa, è
un modello, è una scelta. Beppe lascia le porte sempre aperte, in
due mesi non l'abbiamo mai visto chiudere a chiave nulla. É un gesto
che mostra come quest'uomo vede il mondo intorno a sé.
Richard, uno scrittore
inglese di settantacinque anni, è stato in vacanza qui per un mese.
Ora ci sono quattro wwoofer oltre a noi: una coppia di inglesi
giovani e intraprendenti, Tom e Lucy, una ragazza inglese che ha
insegnato italiano in Salento per un paio di mesi, Lizzy, e una
ragazza italiana mezza sarda, mezza napoletana, mezza bolognese,
Noemi. E poi ci sono gli amici di Beppe che vanno e vengono, che
passano a salutare e a prendere un caffè, a suonare la chitarra
fumando insieme una sigaretta, a portare le uova delle loro galline,
a far conoscere il nuovo bebé nato. Un mescolio di gente, di
progetti, di gente persa e che cerca di ritrovarsi, di cammini che
sembra non c'entrino nulla uno con l'altro e invece si incrociano con
un perchè.
Prima di avere delle
galline sue Beppe vuole aspettare di trovare una moglie, ci dice che
qui si usa così. Di animali a Piccapane ci sono solo cani e gatti.
Due gatte hanno fatto i gattini nelle ultime due settimane, li
abbiamo visti nascere di fronte alla cucina, era per noi la prima
volta, un'emozione.
Salento è la risata
delle ragazze, alla fine della festa, a lume delle ultime candele.
Salento è un forno acceso, poi spazzato e con le frise a biscottarsi
dentro. Salento è terra riarsa, rinvigorita da acque sotterranee,
primitive. É il Passato che muove il Salento. I vecchi contadini
sono quasi scomparsi, ma gli altri si ricordano. La memoria si è
preservata, ma come in una lingua antica, come un ritornello griko,
arcaico, perduto. Il ritornello di un antico canto dal fondo di un
pozzo dove l'acqua si è raccolta, un pozzo scavato quando la memoria
degli uomini vivi si perde. Salento è senza punti di riferimento, al
centro della rosa dei venti. Dove soffia lì si va. Salento sono i
pomodori sui cannizzi, con il sale e le mosche che non larvano, ma
succhiano l'acqua e accelerano l'essiccatura. Salento è agnello alla
brace, fumante aromi, che sale in alto mentre il vino scende. Salento
e la terra bruciata, rossa di sangue contadino sputato da secoli a
zappare sassi. Salento è geometria degli orti, perfetti, i frutti
generosi. Salento è varietà, è scoperta. Salento è veleno, che si
infiltra tra le crepe e inonda la terra, i rivi, i campi. Allora
l'acqua buona la si deve scavare fuori da novanta metri di argille, e
quando finisce non si sa. Salento è tamburelli e lucertole, muri e
case di sassi, flaconi di roundup appesi agli alberi, zona avvelenata
scritto su cartelli sdruciti, a matita, ed attaccato col
nastro ai ceppi. Salento sono ulivi. Ulivi ed ulivi. Alberi torti sui
loro tronchi, annodati sulle pieghe di potature vecchie di secoli,
scavati, curati, allevati. Salento è sole e mare, ma non qui, ai
paduli, in mezzo all'argilla ed alle zanzare. Salento sono le piante
di capperi che invadono la strada, i fichi potati bassi, chinati
sotto il peso dei frutti, gonfi, dolcissimi. Salento è terra de
cozzi, trasformata in giardino.
L'ultimo giorno di
maggio, caldo torrido, indosso pantaloncini corti di jeans. Siamo
alla villa (il parco giochi del giardinetto del paese) tutti e tre e
con noi c'è anche Lucio Meleleo, un caro amico, ex sindaco di
Cutrofiano, dal '93 al '97. “Non è estate, è maggio, i
pantaloncini troppo corti non sono ancora ammessi in paese. E poi
vengono accettati solo per le turiste”, mi dice. “Ma io vengo da
Torino, quindi sono una turista” replico io. “E no, tu ora mandi
la bambina a scuola qui e lavori qui, ormai sei di Cutrofiano”. Il
paese ti guarda anche quando sembra vuoto, credi non ci sia nessuno,
ma senti che da dietro le finestre qualcuno guarda e osserva. Sempre.
L'iperico è una pianta
spontanea che cresce vicino ai muretti ed ai bordi delle strade.
Schiude un fiore giallo a cinque punte, grumoso, unto di polline. I
contadini lo raccoglievano a San Giovanni. L'erba di San Giovanni è
stata attribuita ad un santo perché è davvero una benedizione di
Dio. Ingerito sotto forma di tisana è disintossicante, febbrifugo,
antinfiammatorio. L'oleolito è invece miracolo su qualsiasi tipo di
scottature. Bruciati dal fuoco, dall'acqua bollente, dal sole, appena
si applica sull'ustione dono immediato sollievo, se la si unge
regolarmente sparisce in metà del tempo. Applicazione prolungate
fanno guarire cicatrici e fistole. Non esiste in farmacologia nulla
di egualmente efficace. Anche l'olio di iperico della farmacia è
blando rispetto a quello che ci si può fare da soli. É Giò a farmi
scoprire l'iperico. Ne confeziona diversi vasetti ogni anno e li
vende cari. Perchè raccogliere l'iperico è un lavoro di precisione.
Ogni stelo ha un fiore aperto e due boccioli subito sotto. Se si
strappa il fiore con troppa violenza i due boccioli rimangono
attaccati sotto, così si raccoglie un fiore oggi e se ne perdono due
domani. Bisogna chiudere i petali con due dita e recidere lo stelo
con l'unghia subito sotto il fiore. Se si strappa la pianta alla
radice e si mette in acqua continuerà a fiorire per giorni. Giò ci
aveva indicato un bel cespuglietto nella campagna di Galatina. “Se
la curate questa diventa la vostra pianta”. Ci mettiamo in tre a
spulciare piccoli petali gialli, uno per uno. In quella raccolta
avevo prodotto il mio primo vasetto. Quaranta giorni al sole, da
scuotere ogni giorno. Il problema è che dopo l'inverno
particolarmente umido, l'erba ai bordi delle strade diventa alta. E
così i contadini passano con il falciaerba e puliscono, senza stare
tanto a guardare cosa puliscono. Ieri mattina appena imboccata la
stradina che mena ai campi di Beppe a Galatina, ho sentito un tonfo
al cuore vedendo le ripe rasate di fresco. Il “nostro cespuglio”
di iperico spazzato via come in un turbine.
Stamattina al campo
grande di Galatina abbiamo raccolto colori. Meloni, angurie,
pomodori, carote, sedano, cipolle, fagiolini, peperoncini, melanzane.
Meravigliosi colori e profumi, e le mani godono a toccare tante
diverse superfici. Il caldo rischia di non fare apprezzare più
nulla, e il caldo è tanto, arriva presto. Cerchiamo di arrivare
prima di lui, alle cinque e mezza siamo lì, insieme alla terra, con
il sole che è ancora placido, un po' d'aria che soffia, noi ancora
un poco assonnati. Un pomodoro dopo l'altro la cassetta gialla si
riempie di rosso. Le piante stanno cominciando a seccare, da
settimane non piove. Giò mi dice che se resistono ancora una decina
di giorni si riprenderanno poi con le piogge dei temporali di agosto.
Le piante di peperoncino sono in tre filari, le foglie verde
brillante, i frutti verdi, arancioni e già rossi quelli più maturi.
Ho timore a raccoglierne così tanti, forse il piccante passa anche
attraverso il frutto chiuso? Giò mi rassicura, è innocuo finchè
non lo si apre. La pianta sembra forte, quasi di plastica e invece mi
accorgo presto che è molto fragile, rischia di spezzarsi ad ogni
movimento. Una pianta di cristallo che produce frutti così potenti.
Tantissime sono le piantine qui a Galatina che avevamo piantato noi
stessi in primavera, in questa ricca terra rossa, con le felpe ancora
addosso nella prima mattina. Le abbiamo viste crescere, abbiamo dato
acqua e diserbato, e vederle ora tronfie di frutti è commovente. La
terra ti tiene a sé legato, restituisce amplificato l'amore che hai
messo nel lavorarla. La raccolta è un lavoro facile, ripetitivo, e
dà soddisfazione. É questa la mia meditazione, non quella a gambe
incrociate che per ora non fa per me. Nei primi minuti il cervello
pensa al gesto che sta compiendo, poi si abitua e lo fa in modo
meccanico e allora inizia ad attorcigliarsi intorno a pensieri. Poi
cede al niente, ed è magia, volano le ore, si lavora felici
nonostante il caldo torrido, la stanchezza di un'altra notte troppo
corta, la voglia di ombra di un ulivo e di riposo. Mia madre ieri mi
ha telefonato per sapere come stavo, aveva letto la notizia di un
ragazzo morto di caldo e fatica mentre raccoglieva pomodori, voleva
rassicurazioni sulle mie condizioni. Non sono le stesse, lui era un
ragazzo sfruttato, noi siamo wwoofers. Le ore di lavoro sono intense,
ma poi il tempo libero è tanto. Libero per riposarsi, per leggere e
scrivere, per gironzolare, per un tuffo al mare, per giocare
tantissimo con Maelia, per conoscere questo strano Salento.
Con un limone in mano sto
per sedermi sui gradini davanti alla pineta, stanca e serena penso al
pomeriggio libero che abbiamo davanti, andremo al mare? No, forse
oggi c'è troppo vento.
Poi le orecchie
registrano un rumore nuovo, i sensi tutti si allertano, il naso è in
allarme, gli occhi cercano cosa c'è che non va. É lì, davanti a
me, a quattrocento metri da casa. Fuoco. Non ho mai visto un incendio
prima, nel mondo reale. In tv e nelle fotografie non conta. Torno in
salone, cerco Beppe, lo avverto. Telefoniamo subito ai vigili del
fuoco (o piompieri come li chiama Tati), arriviamo appena possiamo, è
la risposta.
Chi ha appiccato il fuoco
ha atteso il giorno migliore, oggi soffiava la tramontana, e il vento
fa muovere e fa diffondere le fiamme in un attimo. Rabbia, paura,
impotenza. Chi ha più sangue freddo reagisce. Beppe, Andrea e Luca
in un attimo sono al canneto, Andrea e Luca con giacche e coperte per
spegnere le fiamme più basse e contenere il fuoco e Beppe con il
trattore per soffocare il divagarsi dell'incendio creando una linea
tagliafuoco, taglia canne e erba per non permettere al fuoco di
avanzare verso casa. Il fumo è spesso, entra nella bocca anche se la
si tiene chiusa, il rumore degli alberi e delle canne che si bruciano
e che si piegano morendo nel calore delle fiamme è spaventoso.
Andrea e Luca battono e battono le fiamme più basse, riescono a
limitare il fuoco. Beppe taglia e fresa. Le fiamme sono a tratti
altissime, il fuoco rosso arancio, più vivo che mai. Gli uccelli in
volo danzano un ballo impazzito. Noi altri rimaniamo a guardare,
grati al coraggio di chi riesce a fare. Poi arrivano i piompieri, due
ragazzi e una ragazza, giovanissimi, senza dir nulla iniziano a
salvare. Con le manichette combattono le fiamme dal centro e dai
bordi, riescono in breve tempo a far placare la bestia. Restiamo
immobili, increduli, tristi.
Dietro di noi, a duecento
metri, davanti a una piccola casa bianca di campagna, vuota e che ha
l'aria abbandonata, due persone, un uomo e una donna, ci guardano
immobili. Portano in noi diffidenza istintiva, fumano lunghe e grosse
sigarette osservando la scena. Stavano lì a guardare da prima, non
avevano chiamato i vigili, il vento non tirava dalla loro parte, non
correvano pericolo, dunque perchè preoccuparsi?
“Lasciamo finire ai
vigili del fuoco, torniamo a casa ragazzi”. Il meritato pisolino
pomeridiano è stato ritardato di un paio d'ore. Beppe ha lo sguardo
lontano, c'è rabbia e tristezza. “Le ore sono sempre le stesse,
mattino presto o a cavallo del pranzo”, ci spiega, “scelgono per
appiccare i momenti di maggiore distrazione e rilassatezza”.
Succede una volta ogni anno o ogni due che qui venga appiccato il
fuoco. La scorsa settimana cinquanta antichi alberi di ulivo,
centenari e carichi di frutti che avremmo raccolto tra un mese, sono
stati bruciati. Come si fa ad accettare, ad abituarsi, a lavorare e
faticare serenamente? Non sappiamo il perchè di tutto questo, non lo
capiamo, e non c'è per ora spazio per discuterne.
L'estate oggi sembra
finita. Tiriamo fuori le felpe dall'armadio.
A luglio qui ci siamo
sposati, un matrimonio fatto di vestiti teatrali, bicicargo rosa,
bouquet home made, di intendo no deve dire si lo voglio, di picnic in
pineta, di giornata a Portoselvaggio, di cena vegana, di canti di
chitarra salentini e di poesie nude. Poi luglio è volato nel caldo e
nel lavoro e agosto ci ha stupito da inizio a fine. Una lunga luna di
miele, Prima il Molise e Jelsi, la famiglia, tutta tanta e unita,
legami di sangue e di amore. Poi il Giardino della Gioia, perla
vicino a Torre Mileto, lì gli ulivi secolari e la volontà di una
vita rispettosa e grata, là la plastica e l'immondizia senza
vergogna. Avremmo dovuto rimanere pochi giorni, ma la bellezza era
tanta, non riuscivamo più ad andar via. E infine Peschici, dopo
quattro anni di assenza. Valentina e Furio e i loro bianchi sorrisi,
risate vino e serenità. Riscoprirsi e ritrovarsi senza che il tempo
abbia mutato nulla.
Piccapane e Beppe ci
accolgono di nuovo in questo fresco settembre, resteremo con loro
ancora un altro po', la raccolta delle olive quest'anno la faremo più
in grande, con in mezzo alle braccia e alle mani e alle reti anche le
macchine che scuotono gli alberi.
Poi ci auguriamo libertà
di ripartire, visualizzando sempre il positivo, apprezzando ogni
incontro e restando affamati di scoperta.