Oggi c'è stato vento
forte, ci si doveva urlare le cose per sentirsi sulla collina, gli
alberi intorno si mischiavano all'aria e il fruscio era forte. Il
vento era freddo, le nuvole grandi e scure nel cielo immenso sui
boschi. I giorni come oggi sono gli ultimi strascichi di inverno, e
intanto il salice piangente davanti casa ha già ogni suo lungo
rametto ricoperto di verdi foglioline pronte a crescere e ad aprirsi,
e anche i susini, i ciliegi, ogni albero comincia a mostrare le gemme
sui rami, le promesse di primavera.
Maelia è tornata a
scuola dopo una settimana a casa, com'era felice, e anche noi.
Mancavano la bicicletta, i cappelli e le sciarpe, le discese veloci e
le faticose salite. Incantevole tornare a stare bene, sia per la
nostra piccola bimba che ha affrontato solo una lieve influenza, e
sia per noi che invece abbiamo vissuto qualcosa di un po' più
grande, qualcosa che ci è sembrato anche troppo grande. Ma poi
invece ce l'abbiamo fatta, la perdita di qualcuno che ancora nemmeno
conoscevamo l'abbiamo superata, in mezzo a un po' di sane lacrime, a
righe scritte. A un rito inventato: ora una piccola quercia è lì,
discreto simbolo, ai piedi della food forest, con le nostre preghiere
e i nostri pensieri piantati nella terra, con le ceneri del fuoco
sparse intorno. É stato un “buon viaggio” leggero quello che
siamo riusciti ad augurargli. La forza torna un po' di più ogni
giorno, lo vediamo nella voglia di parlare e scherzare e ridere,
nella camminata che si fa di nuovo veloce, nelle notti di nuovo
serene.
Abbiamo temuto un po' di
tutto vivendo una sfortuna in fila all'altra, ci siamo anche
ritrovati una mattina a mischiare acqua olio e candele accese per
scoprire se qualcuno ci avesse lanciato il malocchio. Insomma il
periodo è stato ben duro, ma non insormontabile. Siamo ancora in
piedi, più saldi e innamorati di prima, .
La famiglia di Tiziano,
Erika e i loro due bimbi ha vissuto, anche se solo di rimbalzo i
nostri dolori, i silenzi hanno invaso una bella relazione che stava
nascendo. Ora con un cerchio, una bottiglia di vino, tanta sincerità
e buona volontà si tenta di recuperare, ma un mese di guai è stato
lungo anche per loro. Peccato, certo. Ma dovevamo metterlo in conto
che andando in giro in wwoofing per tanto tempo sarebbero potute
capitare non solo cose belle, ma anche altre più problematiche e
dolorose. Ci siamo ritrovati a vivere un'emozione molto triste ed
intima con delle persone che seppur disponibili e comprensive,
conoscevamo appena. Momenti in cui forse non vorresti nemmeno gli
amici più intimi intorno ti ritrovi a stretto contatto con delle
persone che sono quasi degli sconosciuti. La convivenza è anche
questo.
Ci siamo interrogati in
questo periodo anche su che cos'è il rapporto host/wwoofer.
Quanto si può costruire
a livello umano in un periodo così breve, per noi tre mesi circa, ma
per tanti altri anche molto meno; cosa si aspettano gli host da
coloro che accolgono in casa loro, tanto lavoro, un'amicizia,
semplice compagnia; come comportarsi come wwoofer in caso di
problematiche di salute o familiari, alzare le tende se se ne hanno
le possibilità, rimanere e condividere il bene e il male. Siamo
giunti a conclusioni ancora sconfusionate... ci vorrà tempo ed
esperienza per avere un quadro più chiaro, fermo restando che ogni
caso sarà sempre e comunque unico. Quel che abbiamo capito per ora è
che essere wwoofer è essere a tutti gli effetti un lavoratore, che
però vive a casa del capo. Che è sicuramente un capo migliore di
molti altri, molto aperto se ha scelto di entrare nel circuito
wwoofing, interessato alla conoscenza reciproca, ma resta lui il
capo, e tu il lavoratore. Se ci si trova bene e si è in gran forma
fisica, allora tutto va a meraviglia, ancora meglio se fa bel tempo o
almeno non diluvia e si può lavorare finché c'è luce. Se invece è
tutto il contrario... allora le cose si complicano... Poi vi è tutta
la dinamica dell'accoglienza e della condivisione, che è
assolutamente reale. Si è accolti in famiglia e nelle dinamiche ad
essa intrinseche, si diventa parte delle giornate del nucleo
famigliare in cui si vive. Ma si rimane una parte relativa, si è un
qualcuno che non è un pari, che sta agli orari della famiglia host e
rispetta le abitudini della casa, che mette i propri tempi e
interessi in secondo piano di modo da non diventare un peso. Forse è
questo che alla lunga può portare squilibri e far stridere i
rapporti.
Forse tre mesi sono
troppi e troppo pochi. Troppi perché non è un periodo
sufficientemente breve da portare a vivere unicamente il lavoro e la
spensieratezza di una relazione amicale nuova, ma anzi in una
novantina di giorni vi è tempo di andare più a fondo nella vita
delle persone e vederne il bello e il brutto. Ma sono pochi perché
in tre mesi appena cominci a fare quel passo in più, quel gradino in
salita, ma che ti porta a una relazione più profonda e reale, ed
ecco che è già giunta l'ora di partire. D'altronde i professori di
antropologia all'università hanno sempre detto a noi studenti che un
terreno di ricerca abbisogna in primis di tempo, l'elemento più
prezioso. Tre mesi sono considerati lo stretto indispensabile, il
minimo al di sotto del quale una tesi di ricerca rischia di non
farcela. Parlano per esperienza diretta di vita i saggi professori.
Forse modificheremo i tempi di permanenza, si passerà a sei mesi da
ogni host invece dei tre previsti. Vedremo. Per ora marzo è
cominciato con i migliori auspici, tenteremo di fare ogni cosa che
avremmo voluto fare in tre mesi qui da Amaltea in queste ultime
quattro settimane. Ce la faremo? Filmati e foto, interviste,
apprendere a potare gli ulivi, a fare le creme, a distinguere le
piante, a costruire recinti... D'altronde la mia mamma lo dice: da
ventotto anni che vorrei far entrare il mare in un bicchiere.