Tuesday 29 December 2015

Addii, arance e olio di Sicilia.


Lasciamo il Salento il 2 novembre. A metà raccolta delle olive. Una raccolta meccanica e rumorosa, con gli abbacchiatori che scoppiettano e le reti da spostare in fretta sotto la pioggia di frutti carnosi. Salutiamo le piane verdi e le ulivete argentate. Salutiamo gli orti e le raccolte, le casse piene di verdura, ed il vino. L'ultima sera diciamo addio a questa terra piatta e fertile con una bottiglia di Cappello di Prete, del 2007. Grazie, Marco. Il vino, lu mieru, come si dice qui, è un ottimo rimedio contro la nostalgia.

Quanti bicchieri te mieru me biu,
tanti pinzieri te capu me lleu..

 

L'ultima notte è a Lecce da Noemi, e trascorre allegra, il vino scorre e la canapa brucia.

Lu megghiu dutturi è lu cantinieri,
Te llea de capu tutti li pinzieri..

Ridiamo, ci abbracciamo, ricordiamo i mesi passati insieme, quando ci rivedremo?

Ci quannu mueru ieu au 'mparaisu,
ci nun c'è lu mieru bonu ieu nun ci trasu..

 

Ci chiediamo quando torneremo in questa terra tanto bella e tanto violentata. Difficile a dirsi. Il Salento è il tempo che non torna, anche se sembra non sia mai cambiato, con i servi e li padruni ed i campi di cicorie.
Lasciamo il Salento. Raggiungiamo Taranto ed osserviamo increduli la maestosa, velenosa decadenza dell'Ilva. Capannoni immensi e ciminiere torreggianti, puntate contro il cielo come canne di fucile. Ed ovunque si guardi, un sottile strato di finissima polvere rossa, di limatura di ferro, che si posa delicatamente su tutte le superfici, come una spolverata di zucchero a velo sopra una torta. Scappiamo verso la Lucania costiera, tra le calanche, gli stabilimenti deserti e le agrumete che prendono il posto agli ulivi, fino in Calabria, dove le coste e i piedi dei monti sono accesi di piccoli soli arancioni e gialli, limoni, arance, mandarini. Saliamo fino a che le querce si sostituiscono agli agrumi. Lamirtìa è una cascina su un cocuzzolo dei monti silani. Sette ettari di bosco e pascolo. L'orto rigoglioso, a bancali seminati fitti, con un sistema di subirrigazione rudimentale ma efficace. Ranuccio e Gilda ci accolgono qualche giorno nel loro mondo. Il mondo fuori dal mondo. L'elettricità è a 12 volt, alimentata a batteria. La lavatrice è a pedale. L'acqua è piovana. Le api sono allevate in permacoltura, famiglie selezionate che non ricevono trattamenti e non sono sovrasfruttate. Le capre garantiscono lo staio per le coltivazioni. La vista spazia sulle ripide colline dall'altro lato dell'angusta valle boscosa, che sembrano lì, a pochi passi in linea d'aria, ma difficilissime da raggiungere, scendendo e risalendo gli erti costoni dei monti. La pace è rotta solo per brevi tratti dal latrato dei cani e dal rombo sordo dell'autostrada, quattrocento metri sotto. Ci rigeneriamo in quella pace per tre giorni, poi dall'erta montagna fitta di querce ed alveari, scendiamo a rotta di collo fino al mare, a comprare arance e passeggiare sui ciottoli, mentre un sole irreale riflette baluginando sul mare, e ci acceca. Caldo pranzo sulla riva. Poi si prosegue. Armonia. Lì si produce miele con il metodo tradizionale. Lì impariamo che lo staio è la base dell'agricoltura biologica. Impariamo sul campo, spalando merda di vacca sui campi di fragole e merda di gallina sulle aiole. La merda dei maiali la ammucchiamo soltanto.


E la Sicilia è lì. Ci addormentiamo guardando le luci di Messina dalla sponda opposta. Sembra di poterla raggiungere con un salto. Se ne va l'ultima erba salentina, guardando i traghetti illuminati fare avanti e indietro. La mattina ci si imbarca e poi si guida fino a Palermo. Giriamo intorno alla città, e vediamo solo munnezza, cani ed autodemolizioni. Poi si comincia a salire. Verso Sciacca, verso l'altra sponda. Erte valli, monti brulli e paesi in bilico sulle frane.
La Sicilia è solitudine. Monti in mezzo al mare. La Sicilia è il sole sulle pagliare, ed i clivi sassosi, spogliati dai pascoli. La Sicilia è monnezza per le strade, ed i cani smagriti che ci razzolano dentro. La Sicilia è d'arancia, piccolo sole d'inverno, e  di arancina, calda e confortante. La Sicilia è un borgo fantasma, che racconta storie di briganti. La Sicilia è dolce, è salata, amara ed aspra. Accogliente ma spinosa, affabile ma sospettosa. È mare e montagna, alluvione ed arsura, carestia ed abbondanza. Sicilia è speranza, è partenza, è mattanza. Ogni borgo ha le sue croci, sotto le croci la giustizia sociale. La Sicilia è un bosco in fiamme, una vacca abbandonata nel fango. È un ulivo cresciuto tra i sassi, un muro a secco coperto di sterpi, una frana che avanza a piccoli passi.
Ci arrampichiamo di nuovo sui monti, poi scendiamo in una stretta valle, dove sopravvive una macchia di bosco. La casa di Danilo e Simona è su di un clivo, tra le terrazze che scendono fino a due ruscelli, che si uniscono a V ai piedi di un poggio. La casa è ristrutturata in bioedilizia. Intonaci in terra cruda, isolamento con sughero e paglia, pannelli solari e raccolta acqua piovana. Due asini brucano le infestanti ed arricchiscono la scarsa terra, piena di sassi, con cacca fresca che diventa in breve, suolo fertile. Tutto fa parte di un progetto permacolturale. I bimbi, Anthea ed Ethan, giocano con Maelia, noi raccogliamo di nuovo olive. Un raccolto straordinario, che rende il 22 percento. In due settimane di raccolta a mano la casa è più ricca di quasi quattrocento litri di olio freschissimo, verde brillante e profumato di bosco. La Sicilia è dubbio, attesa, speranza. Scelta, bivio. Separazione e ritorno. Attendiamo la primavera più che mai.