Lasciamo il Salento il 2 novembre. A metà raccolta delle olive. Una raccolta meccanica e rumorosa, con gli abbacchiatori che scoppiettano e le reti da spostare in fretta sotto la pioggia di frutti carnosi. Salutiamo le piane verdi e le ulivete argentate. Salutiamo gli orti e le raccolte, le casse piene di verdura, ed il vino. L'ultima sera diciamo addio a questa terra piatta e fertile con una bottiglia di Cappello di Prete, del 2007. Grazie, Marco. Il vino, lu mieru, come si dice qui, è un ottimo rimedio contro la nostalgia.
Quanti bicchieri te mieru me biu,
L'ultima notte è a
Lecce da Noemi, e trascorre allegra, il vino scorre e la canapa
brucia.
Lu megghiu dutturi è lu cantinieri,
Te llea de capu tutti li pinzieri..
Ridiamo, ci
abbracciamo, ricordiamo i mesi passati insieme, quando ci rivedremo?
Ci quannu mueru ieu au 'mparaisu,
ci nun c'è lu mieru bonu ieu nun ci
trasu..
Ci chiediamo quando
torneremo in questa terra tanto bella e tanto violentata. Difficile a
dirsi. Il Salento è il tempo che non torna, anche se sembra non sia
mai cambiato, con i servi e li padruni ed i campi di cicorie.
Lasciamo il
Salento. Raggiungiamo Taranto ed osserviamo increduli la maestosa,
velenosa decadenza dell'Ilva. Capannoni immensi e ciminiere
torreggianti, puntate contro il cielo come canne di fucile. Ed
ovunque si guardi, un sottile strato di finissima polvere rossa, di
limatura di ferro, che si posa delicatamente su tutte le superfici,
come una spolverata di zucchero a velo sopra una torta. Scappiamo
verso la Lucania costiera, tra le calanche, gli stabilimenti deserti
e le agrumete che prendono il posto agli ulivi, fino in Calabria,
dove le coste e i piedi dei monti sono accesi di piccoli soli
arancioni e gialli, limoni, arance, mandarini. Saliamo fino a che le
querce si sostituiscono agli agrumi. Lamirtìa è una cascina su un
cocuzzolo dei monti silani. Sette ettari di bosco e pascolo. L'orto
rigoglioso, a bancali seminati fitti, con un sistema di
subirrigazione rudimentale ma efficace. Ranuccio e Gilda ci accolgono
qualche giorno nel loro mondo. Il mondo fuori dal mondo.
L'elettricità è a 12 volt, alimentata a batteria. La lavatrice è a
pedale. L'acqua è piovana. Le api sono allevate in permacoltura,
famiglie selezionate che non ricevono trattamenti e non sono
sovrasfruttate. Le capre garantiscono lo staio per le coltivazioni.
La vista spazia sulle ripide colline dall'altro lato dell'angusta
valle boscosa, che sembrano lì, a pochi passi in linea d'aria, ma
difficilissime da raggiungere, scendendo e risalendo gli erti costoni
dei monti. La pace è rotta solo per brevi tratti dal latrato dei
cani e dal rombo sordo dell'autostrada, quattrocento metri sotto. Ci
rigeneriamo in quella pace per tre giorni, poi dall'erta montagna
fitta di querce ed alveari, scendiamo a rotta di collo fino al mare,
a comprare arance e passeggiare sui ciottoli, mentre un sole irreale
riflette baluginando sul mare, e ci acceca. Caldo pranzo sulla riva.
Poi si prosegue. Armonia. Lì si produce miele con il metodo tradizionale. Lì impariamo che lo staio è la base dell'agricoltura biologica. Impariamo sul campo, spalando merda di vacca sui campi di fragole e merda di gallina sulle aiole. La merda dei maiali la ammucchiamo soltanto.
E la Sicilia è lì.
Ci addormentiamo guardando le luci di Messina dalla sponda opposta.
Sembra di poterla raggiungere con un salto. Se ne va l'ultima erba
salentina, guardando i traghetti illuminati fare avanti e indietro.
La mattina ci si imbarca e poi si guida fino a Palermo. Giriamo
intorno alla città, e vediamo solo munnezza, cani ed
autodemolizioni. Poi si comincia a salire. Verso Sciacca, verso
l'altra sponda. Erte valli, monti brulli e paesi in bilico sulle
frane.
La Sicilia è
solitudine. Monti in mezzo al mare. La Sicilia è il sole sulle
pagliare, ed i clivi sassosi, spogliati dai pascoli. La Sicilia è
monnezza per le strade, ed i cani smagriti che ci razzolano dentro. La
Sicilia è d'arancia, piccolo sole d'inverno, e di arancina, calda e
confortante. La Sicilia è un borgo fantasma, che racconta storie di
briganti. La Sicilia è dolce, è salata, amara ed aspra. Accogliente
ma spinosa, affabile ma sospettosa. È mare e montagna, alluvione ed
arsura, carestia ed abbondanza. Sicilia è speranza, è partenza, è
mattanza. Ogni borgo ha le sue croci, sotto le croci la giustizia sociale. La
Sicilia è un bosco in fiamme, una vacca abbandonata nel fango. È un
ulivo cresciuto tra i sassi, un muro a secco coperto di sterpi, una
frana che avanza a piccoli passi.
Ci arrampichiamo di
nuovo sui monti, poi scendiamo in una stretta valle, dove sopravvive
una macchia di bosco. La casa di Danilo e Simona è su di un clivo,
tra le terrazze che scendono fino a due ruscelli, che si uniscono a V
ai piedi di un poggio. La casa è ristrutturata in bioedilizia.
Intonaci in terra cruda, isolamento con sughero e paglia, pannelli
solari e raccolta acqua piovana. Due asini brucano le infestanti ed
arricchiscono la scarsa terra, piena di sassi, con cacca fresca che
diventa in breve, suolo fertile. Tutto fa parte di un progetto
permacolturale. I bimbi, Anthea ed Ethan, giocano con Maelia, noi
raccogliamo di nuovo olive. Un raccolto straordinario, che rende il
22 percento. In due settimane di raccolta a mano la casa è più
ricca di quasi quattrocento litri di olio freschissimo, verde
brillante e profumato di bosco. La Sicilia è dubbio, attesa,
speranza. Scelta, bivio. Separazione e ritorno. Attendiamo la
primavera più che mai.
E anche oggi all'Ilva di Taranto un altro morto.
ReplyDeleteMannaggia 22%...sarà proprio il caso di coltivare olive.
Bacio.