Thursday 10 September 2015

Picca pane e picca pater nostri


 Da Pasqua stiamo vivendo a Piccapane, wwoofer a lungo termine e non di toccata e fuga. Non scriviamo più da quel giorno. Come mai non lo sappiamo, forse la testa era troppo occupata a preoccuparsi d'altro. Cerchiamo finalmente di liberarla. Oggi, otto settembre, dopo mesi e mesi di arsura fuori piove. Ci concediamo il tempo di un tè caldo, del tavolo di legno in sala e del pc, di rimettere insieme ed in ordine gli appunti mai pubblicati sul blog. Ed eccoli qui: il primo paragrafo è di maggio, l'ultimo di oggi, gli altri stanno in mezzo a questi mesi.

 
Piccapane. Da due mesi siamo qui. La strada passa vicina, vicinissima. A Reggioli eravamo estremamente isolati, boschi colline alberi e verde tutt'intorno ovunque guardassimo. Ad Amaltea si era già più vicino alla civiltà, il paese era in fondo alla collina, si vedevano le luci della città, tra i poggi boscosi, in lontananza, come un esercito schierato a battaglia. Qui siamo accanto all'incrocio di due strade, una è la provinciale e l'altra meno frequentata. Sentire macchine e camion passare è ridiventato un abitudine.
Piccapane è un mondo, è apertura totale verso l'altro, è accoglienza di gente che viene, resta, prende e da, e poi va via. Ho visto passare tante meteore qui, ci dice Giuseppe. Si riferisce ai wwoofer e ai lavoratori che vanno e vengono. Giuseppe ha quarantatrè anni, i capelli neri che sembrano quelli di un giapponese punk, un'eleganza innata anche quando indossa la salopette da lavoro, milioni di cose da fare che lo portano a correre e lavorare tutti i santi giorni. Piccapane è la sua casa, è un modello, è una scelta. Beppe lascia le porte sempre aperte, in due mesi non l'abbiamo mai visto chiudere a chiave nulla. É un gesto che mostra come quest'uomo vede il mondo intorno a sé.


Richard, uno scrittore inglese di settantacinque anni, è stato in vacanza qui per un mese. Ora ci sono quattro wwoofer oltre a noi: una coppia di inglesi giovani e intraprendenti, Tom e Lucy, una ragazza inglese che ha insegnato italiano in Salento per un paio di mesi, Lizzy, e una ragazza italiana mezza sarda, mezza napoletana, mezza bolognese, Noemi. E poi ci sono gli amici di Beppe che vanno e vengono, che passano a salutare e a prendere un caffè, a suonare la chitarra fumando insieme una sigaretta, a portare le uova delle loro galline, a far conoscere il nuovo bebé nato. Un mescolio di gente, di progetti, di gente persa e che cerca di ritrovarsi, di cammini che sembra non c'entrino nulla uno con l'altro e invece si incrociano con un perchè.
Prima di avere delle galline sue Beppe vuole aspettare di trovare una moglie, ci dice che qui si usa così. Di animali a Piccapane ci sono solo cani e gatti. Due gatte hanno fatto i gattini nelle ultime due settimane, li abbiamo visti nascere di fronte alla cucina, era per noi la prima volta, un'emozione.


Salento è la risata delle ragazze, alla fine della festa, a lume delle ultime candele. Salento è un forno acceso, poi spazzato e con le frise a biscottarsi dentro. Salento è terra riarsa, rinvigorita da acque sotterranee, primitive. É il Passato che muove il Salento. I vecchi contadini sono quasi scomparsi, ma gli altri si ricordano. La memoria si è preservata, ma come in una lingua antica, come un ritornello griko, arcaico, perduto. Il ritornello di un antico canto dal fondo di un pozzo dove l'acqua si è raccolta, un pozzo scavato quando la memoria degli uomini vivi si perde. Salento è senza punti di riferimento, al centro della rosa dei venti. Dove soffia lì si va. Salento sono i pomodori sui cannizzi, con il sale e le mosche che non larvano, ma succhiano l'acqua e accelerano l'essiccatura. Salento è agnello alla brace, fumante aromi, che sale in alto mentre il vino scende. Salento e la terra bruciata, rossa di sangue contadino sputato da secoli a zappare sassi. Salento è geometria degli orti, perfetti, i frutti generosi. Salento è varietà, è scoperta. Salento è veleno, che si infiltra tra le crepe e inonda la terra, i rivi, i campi. Allora l'acqua buona la si deve scavare fuori da novanta metri di argille, e quando finisce non si sa. Salento è tamburelli e lucertole, muri e case di sassi, flaconi di roundup appesi agli alberi, zona avvelenata scritto su cartelli sdruciti, a matita, ed attaccato col nastro ai ceppi. Salento sono ulivi. Ulivi ed ulivi. Alberi torti sui loro tronchi, annodati sulle pieghe di potature vecchie di secoli, scavati, curati, allevati. Salento è sole e mare, ma non qui, ai paduli, in mezzo all'argilla ed alle zanzare. Salento sono le piante di capperi che invadono la strada, i fichi potati bassi, chinati sotto il peso dei frutti, gonfi, dolcissimi. Salento è terra de cozzi, trasformata in giardino.


L'ultimo giorno di maggio, caldo torrido, indosso pantaloncini corti di jeans. Siamo alla villa (il parco giochi del giardinetto del paese) tutti e tre e con noi c'è anche Lucio Meleleo, un caro amico, ex sindaco di Cutrofiano, dal '93 al '97. “Non è estate, è maggio, i pantaloncini troppo corti non sono ancora ammessi in paese. E poi vengono accettati solo per le turiste”, mi dice. “Ma io vengo da Torino, quindi sono una turista” replico io. “E no, tu ora mandi la bambina a scuola qui e lavori qui, ormai sei di Cutrofiano”. Il paese ti guarda anche quando sembra vuoto, credi non ci sia nessuno, ma senti che da dietro le finestre qualcuno guarda e osserva. Sempre.


L'iperico è una pianta spontanea che cresce vicino ai muretti ed ai bordi delle strade. Schiude un fiore giallo a cinque punte, grumoso, unto di polline. I contadini lo raccoglievano a San Giovanni. L'erba di San Giovanni è stata attribuita ad un santo perché è davvero una benedizione di Dio. Ingerito sotto forma di tisana è disintossicante, febbrifugo, antinfiammatorio. L'oleolito è invece miracolo su qualsiasi tipo di scottature. Bruciati dal fuoco, dall'acqua bollente, dal sole, appena si applica sull'ustione dono immediato sollievo, se la si unge regolarmente sparisce in metà del tempo. Applicazione prolungate fanno guarire cicatrici e fistole. Non esiste in farmacologia nulla di egualmente efficace. Anche l'olio di iperico della farmacia è blando rispetto a quello che ci si può fare da soli. É Giò a farmi scoprire l'iperico. Ne confeziona diversi vasetti ogni anno e li vende cari. Perchè raccogliere l'iperico è un lavoro di precisione. Ogni stelo ha un fiore aperto e due boccioli subito sotto. Se si strappa il fiore con troppa violenza i due boccioli rimangono attaccati sotto, così si raccoglie un fiore oggi e se ne perdono due domani. Bisogna chiudere i petali con due dita e recidere lo stelo con l'unghia subito sotto il fiore. Se si strappa la pianta alla radice e si mette in acqua continuerà a fiorire per giorni. Giò ci aveva indicato un bel cespuglietto nella campagna di Galatina. “Se la curate questa diventa la vostra pianta”. Ci mettiamo in tre a spulciare piccoli petali gialli, uno per uno. In quella raccolta avevo prodotto il mio primo vasetto. Quaranta giorni al sole, da scuotere ogni giorno. Il problema è che dopo l'inverno particolarmente umido, l'erba ai bordi delle strade diventa alta. E così i contadini passano con il falciaerba e puliscono, senza stare tanto a guardare cosa puliscono. Ieri mattina appena imboccata la stradina che mena ai campi di Beppe a Galatina, ho sentito un tonfo al cuore vedendo le ripe rasate di fresco. Il “nostro cespuglio” di iperico spazzato via come in un turbine.


Stamattina al campo grande di Galatina abbiamo raccolto colori. Meloni, angurie, pomodori, carote, sedano, cipolle, fagiolini, peperoncini, melanzane. Meravigliosi colori e profumi, e le mani godono a toccare tante diverse superfici. Il caldo rischia di non fare apprezzare più nulla, e il caldo è tanto, arriva presto. Cerchiamo di arrivare prima di lui, alle cinque e mezza siamo lì, insieme alla terra, con il sole che è ancora placido, un po' d'aria che soffia, noi ancora un poco assonnati. Un pomodoro dopo l'altro la cassetta gialla si riempie di rosso. Le piante stanno cominciando a seccare, da settimane non piove. Giò mi dice che se resistono ancora una decina di giorni si riprenderanno poi con le piogge dei temporali di agosto. Le piante di peperoncino sono in tre filari, le foglie verde brillante, i frutti verdi, arancioni e già rossi quelli più maturi. Ho timore a raccoglierne così tanti, forse il piccante passa anche attraverso il frutto chiuso? Giò mi rassicura, è innocuo finchè non lo si apre. La pianta sembra forte, quasi di plastica e invece mi accorgo presto che è molto fragile, rischia di spezzarsi ad ogni movimento. Una pianta di cristallo che produce frutti così potenti. Tantissime sono le piantine qui a Galatina che avevamo piantato noi stessi in primavera, in questa ricca terra rossa, con le felpe ancora addosso nella prima mattina. Le abbiamo viste crescere, abbiamo dato acqua e diserbato, e vederle ora tronfie di frutti è commovente. La terra ti tiene a sé legato, restituisce amplificato l'amore che hai messo nel lavorarla. La raccolta è un lavoro facile, ripetitivo, e dà soddisfazione. É questa la mia meditazione, non quella a gambe incrociate che per ora non fa per me. Nei primi minuti il cervello pensa al gesto che sta compiendo, poi si abitua e lo fa in modo meccanico e allora inizia ad attorcigliarsi intorno a pensieri. Poi cede al niente, ed è magia, volano le ore, si lavora felici nonostante il caldo torrido, la stanchezza di un'altra notte troppo corta, la voglia di ombra di un ulivo e di riposo. Mia madre ieri mi ha telefonato per sapere come stavo, aveva letto la notizia di un ragazzo morto di caldo e fatica mentre raccoglieva pomodori, voleva rassicurazioni sulle mie condizioni. Non sono le stesse, lui era un ragazzo sfruttato, noi siamo wwoofers. Le ore di lavoro sono intense, ma poi il tempo libero è tanto. Libero per riposarsi, per leggere e scrivere, per gironzolare, per un tuffo al mare, per giocare tantissimo con Maelia, per conoscere questo strano Salento.


Con un limone in mano sto per sedermi sui gradini davanti alla pineta, stanca e serena penso al pomeriggio libero che abbiamo davanti, andremo al mare? No, forse oggi c'è troppo vento.
Poi le orecchie registrano un rumore nuovo, i sensi tutti si allertano, il naso è in allarme, gli occhi cercano cosa c'è che non va. É lì, davanti a me, a quattrocento metri da casa. Fuoco. Non ho mai visto un incendio prima, nel mondo reale. In tv e nelle fotografie non conta. Torno in salone, cerco Beppe, lo avverto. Telefoniamo subito ai vigili del fuoco (o piompieri come li chiama Tati), arriviamo appena possiamo, è la risposta.
Chi ha appiccato il fuoco ha atteso il giorno migliore, oggi soffiava la tramontana, e il vento fa muovere e fa diffondere le fiamme in un attimo. Rabbia, paura, impotenza. Chi ha più sangue freddo reagisce. Beppe, Andrea e Luca in un attimo sono al canneto, Andrea e Luca con giacche e coperte per spegnere le fiamme più basse e contenere il fuoco e Beppe con il trattore per soffocare il divagarsi dell'incendio creando una linea tagliafuoco, taglia canne e erba per non permettere al fuoco di avanzare verso casa. Il fumo è spesso, entra nella bocca anche se la si tiene chiusa, il rumore degli alberi e delle canne che si bruciano e che si piegano morendo nel calore delle fiamme è spaventoso. Andrea e Luca battono e battono le fiamme più basse, riescono a limitare il fuoco. Beppe taglia e fresa. Le fiamme sono a tratti altissime, il fuoco rosso arancio, più vivo che mai. Gli uccelli in volo danzano un ballo impazzito. Noi altri rimaniamo a guardare, grati al coraggio di chi riesce a fare. Poi arrivano i piompieri, due ragazzi e una ragazza, giovanissimi, senza dir nulla iniziano a salvare. Con le manichette combattono le fiamme dal centro e dai bordi, riescono in breve tempo a far placare la bestia. Restiamo immobili, increduli, tristi.
Dietro di noi, a duecento metri, davanti a una piccola casa bianca di campagna, vuota e che ha l'aria abbandonata, due persone, un uomo e una donna, ci guardano immobili. Portano in noi diffidenza istintiva, fumano lunghe e grosse sigarette osservando la scena. Stavano lì a guardare da prima, non avevano chiamato i vigili, il vento non tirava dalla loro parte, non correvano pericolo, dunque perchè preoccuparsi?
“Lasciamo finire ai vigili del fuoco, torniamo a casa ragazzi”. Il meritato pisolino pomeridiano è stato ritardato di un paio d'ore. Beppe ha lo sguardo lontano, c'è rabbia e tristezza. “Le ore sono sempre le stesse, mattino presto o a cavallo del pranzo”, ci spiega, “scelgono per appiccare i momenti di maggiore distrazione e rilassatezza”. Succede una volta ogni anno o ogni due che qui venga appiccato il fuoco. La scorsa settimana cinquanta antichi alberi di ulivo, centenari e carichi di frutti che avremmo raccolto tra un mese, sono stati bruciati. Come si fa ad accettare, ad abituarsi, a lavorare e faticare serenamente? Non sappiamo il perchè di tutto questo, non lo capiamo, e non c'è per ora spazio per discuterne.


L'estate oggi sembra finita. Tiriamo fuori le felpe dall'armadio.
A luglio qui ci siamo sposati, un matrimonio fatto di vestiti teatrali, bicicargo rosa, bouquet home made, di intendo no deve dire si lo voglio, di picnic in pineta, di giornata a Portoselvaggio, di cena vegana, di canti di chitarra salentini e di poesie nude. Poi luglio è volato nel caldo e nel lavoro e agosto ci ha stupito da inizio a fine. Una lunga luna di miele, Prima il Molise e Jelsi, la famiglia, tutta tanta e unita, legami di sangue e di amore. Poi il Giardino della Gioia, perla vicino a Torre Mileto, lì gli ulivi secolari e la volontà di una vita rispettosa e grata, là la plastica e l'immondizia senza vergogna. Avremmo dovuto rimanere pochi giorni, ma la bellezza era tanta, non riuscivamo più ad andar via. E infine Peschici, dopo quattro anni di assenza. Valentina e Furio e i loro bianchi sorrisi, risate vino e serenità. Riscoprirsi e ritrovarsi senza che il tempo abbia mutato nulla.


Piccapane e Beppe ci accolgono di nuovo in questo fresco settembre, resteremo con loro ancora un altro po', la raccolta delle olive quest'anno la faremo più in grande, con in mezzo alle braccia e alle mani e alle reti anche le macchine che scuotono gli alberi.
Poi ci auguriamo libertà di ripartire, visualizzando sempre il positivo, apprezzando ogni incontro e restando affamati di scoperta.



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